Aprire all’estero: l’esperienza di Denis Dianin.

Sono anni di profondo rinnovamento per la pasticceria italiana, in particolare per la pasticceria tradizionale. Tante piccole realtà locali - molte caratterizzate da una gestione familiare - stanno lavorando sulla propria immagine, sulla comunicazione e sulla presentazione delle proprie realizzazioni per incontrare le aspettative di nuove generazioni di consumatori.

Interpretare il cambiamento, però, non è l’unica sfida da affrontare.

“Da quando siamo nati abbiamo sempre lavorato in funzione di un nome, di un’esperienza e di una struttura ben riconoscibile. In funzione del brand. Oggi la competizione richiede all’artigiano nuovi modelli organizzativi, e lo ha fatto con estrema velocità: non è una questione di dimensioni, lavorare facendo impresa non è più una scelta ma un’esigenza, per tutto il settore artigiano.

Averlo capito prima di altri ci ha consentito di presentarci pronti per l’appuntamento con il mercato estero. Era un nostro obiettivo da tempo, il Made in Italy è un incredibile volano di business.”

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Denis Dianin è maestro AMPI e titolare di D&G Patisserie, un’avventura cominciata nel 2005 che oggi rappresenta un modello per l’intero comparto nazionale. Nel nome c’è tutta la filosofia voluta da Denis per la propria attività: D come design in termini di ricerca, sviluppo e progettazione delle proposte alla clientela; G come glamour, perché avere successo significa saper evocare le capacità di attrazione e suggestione che vivono nel cibo, saper ritagliare il giusto vestito per ogni esperienza di gusto.

Una filosofia riconosciuta di recente a Roma, presso la Città del Gusto, con il premio Miglior Aperitivo Sanbitter 2014. Sì, D&G Patisserie è anche ristorazione di alto livello.

“Quando parlo della mia attività ne parlo sempre al plurale. D&G non è Denis Dianin, è prima di tutto un’azienda, è un gruppo di professionisti. I personalismi sono morti da tempo: la pasticceria internazionale ce lo insegna, bisogna fare squadra, la squadra vince e il singolo perde. L’artigiano deve poter trascorrere il suo tempo in laboratorio, dove crea valore e fa la differenza, non può più occuparsi di tutto come un tempo, soprattutto a livello burocratico.

È indispensabile diventare impresa, lavorare sulla propria organizzazione, pretendere maggiore impegno e conoscenza da parte del gruppo di lavoro e allo stesso tempo affidare maggiori responsabilità.”

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Per Denis ed il suo team qualche mese fa è cominciata una nuova avventura: da marzo D&G Patisserie ha aperto un atèlier a Kuala Lumpur, in Malesia, prima tappa di un progetto che interesserà presto altre città del sud est asiatico.

Il mercato estero, l’eldorado per tutti coloro che lavorano con il Made in Italy ma che ancora spaventa molti attori protagonisti di questo mondo.

Perché la Malesia? Perché Kuala Lumpur?

“Semplice: è stata l’opportunità tra le tante che si è realmente concretizzata. Gli eventi e le fiere di settore sono importanti anche per questo: gli investitori ci sono, hanno compreso le potenzialità di questo tipo di prodotto, noi ci siamo fatti trovare pronti grazie alla forza della nostra filosofia e dell’identità di tutto il servizio che offriamo.

In precedenza c’era stata la possibilità di aprire a Dubai, ma entrare negli Emirati Arabi richiede tempi più lunghi: chi va a caccia di opportunità di business e chi nella pratica le finanzia non sono la stessa persona, questo rende tutto più complesso.”

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La pasticceria italiana all’estero: qual è il reale percepito da parte dei consumatori?

“Incredibile. Il prodotto italiano, in particolare nel sud est asiatico, gode di una considerazione davvero alta. I primi 30 giorni post apertura sono stati giorni di fuoco, una grande soddisfazione ovviamente. Ci troviamo di fronte a consumatori molto diversi. In Italia il dolce è sinonimo di tradizione e molte pasticcerie lavorano prevalentemente come caffetteria a colazione: D&G offre un servizio molto diverso ed è quindi fondamentale per noi raccontare il prodotto e l’esperienza di degustazione, instaurando con il cliente un rapporto confidenziale. A Kuala Lumpur la società è molto giovane, informata - i social network sono davvero strategici - e innamorata del dolce: qui la pasticceria “moderna” è la pasticceria. Punto. Sanno cosa cercano e cosa vogliono, ma soprattutto sanno riconoscere il prodotto di valore, che prima di nascere ha visto momenti di ricerca, di studio e di attenzione nella selezione di materia prime di qualità.

Ecco perché il Made in Italy è vissuto con entusiasmo: non solo per il valore del “saper fare” italiano, ma anche per tutte quelle proposte tradizionali, parte della nostra cultura, che sono di fatto sconosciute a queste latitudini. Fondamentale è lavorare sulla presentazione, la televisione fa cultura e modella le aspettative dei consumatori: per intenderci, se la meringata diventa anche bella ha già vinto la propria sfida. La Francia al contrario sta lavorando più sulla degustazione delle proprie proposte, perché in quanto a presentazione e comunicazione fanno squadra in modo eccezionale, sinergico. Ciò che servirebbe alla pasticceria italiana, dove ancora non si ragiona come movimento e troppo spesso ci si preoccupa solo del proprio orticello.”   

Che livello di preparazione hai riscontrato tra i professionisti locali?

“Premetto che a Kuala Lumpur abbiamo sempre 2 professionisti a rotazione che presidiano tutte le attività in punto vendita, essenziale per assicurarci che il servizio offerto rispecchi davvero la nostra filosofia. Devo ammettere che, a livello di conoscenze, parliamo di basso profili. Ma la voglia di imparare e crescere è tantissima, al contrario del personale italiano.

Mi spiego: in passato viveva la distinzione tra le figure “di laboratorio” e “di bancone”, chi manifestava la curiosità di apprendere finiva per diventare pasticcere, al contrario di chi si limitava al puro servizio. Oggi il concetto di pasticceria come boutique può funzionare solo se si è in grado di abbattere questa dicotomia professionale, questo divario di conoscenze tra negozio e laboratorio. Serve una figura nuova, vitale per l’attività, che sappia vendere attraverso la capacità di raccontare ed emozionare.

Sono critico verso i nostri ragazzi perché da parte loro c’è scarsa predisposizione nel calarsi in questa nuova figura professionale, nell’essere specialista senza necessariamente avere le mani in pasta. Dobbiamo lavorare insieme ai media per comunicare alle nuove generazioni l’esigenza del settore, l’importanza di questo ruolo, soprattutto il suo prestigio, perché l’immagine del ruolo rappresenta una priorità e una forte motivazione per i giovani professionisti: da quando gli chef sono diventati delle star, sappiamo bene in quanti ci stanno provando magari senza alcuna predisposizione per questo lavoro.”

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Siete pionieri di una sfida che molte altre attività stanno considerando di intraprendere: qual è stata la maggiore difficoltà incontrata durante tutto il progetto?

“Sento di poter dare una risposta rassicurante, spero anche stimolante: nessuna in particolare. Aprire all’estero è un progetto alla portata, più di quanto si possa credere. L’importante è avere piena consapevolezza della propria struttura e del contesto nel quale ci si vuole calare. Nel nostro caso, ad esempio, non abbiamo ancora cominciato a produrre in loco: tutto ciò che viene venduto a Kuala Lumpur attualmente esce dal nostro laboratorio padovano. Vogliamo essere più maturi sul mercato asiatico e più solidi a livello gestionale prima aprire un nuovo laboratorio in Malesia e proseguire con il progetto, che interesserà città come Tokyo e Singapore.

Certo, non si può calcolare tutto, gli imprevisti ci sono, organizzazione e logistica vanno migliorate giorno per giorno, ma non esistono ostacoli insormontabili: solo tanto impegno, sudore e volontà. A proposito di logistica, il sud est asiatico è un territorio che ti agevola anche nei costi di trasporto: decisamente più bassi rispetto agli standard europei o intercontinentali.”

Sono passati più di 3 mesi dall’inaugurazione: qual è il bilancio? Senti di aver vinto questa sfida?

“La sfida era già vinta in partenza. Il progetto è nato ad HOST, nel 2013. Poco dopo abbiamo deciso di “tastare il terreno” presenziando con i nuovi soci ad un evento internazionale a Singapore. Abbiamo presentato la futura pasticceria a 360 gradi: il prodotto, l’arredamento, la tecnologia a supporto del lavoro, la filosofia del nostro servizio. Un successo inaspettato.

Negli ultimi due anni abbiamo lavorato tanto sulla nostra struttura a livello organizzativo e logistico, per essere pronti a partire e sostenere nel tempo il nuovo atèlier, ma non abbiamo mai avuto dubbi sul progetto: portare D&G all’estero era un obiettivo che inseguivamo da anni. Per chi ama questo lavoro, il Made in Italy all’estero rappresenta un’esperienza davvero gratificante oltre che una grande opportunità di crescita, non solo economica.”

Che consiglio daresti ai colleghi che si apprestano ad aprire la propria attività al mercato estero?

“È difficile dare una risposta buona per tutti, perché le opportunità di questo tipo possono essere molto diverse tra loro. Noi abbiamo deciso di essere presenti come brand nel mercato estero del fresco, non solo come prodotto, perché ciò che vogliamo offrire è molto più della singola realizzazione. Possono esserci progetti che invece vivono della semplice commercializzazione del prodotto, attività molto più snella.

Facciamo un passo indietro, probabilmente la chiave sta nell’avere le idee chiare e i piedi per terra in partenza: essere consapevoli delle proprie possibilità e di conseguenza comprendere che tipo di impegno e di presenza sono sostenibili, capire cosa proporre, come strutturare e gestire l’attività. In sostanza, avere ben chiaro il proprio obiettivo. E studiare attentamente il mercato nel quale si vuole inserirsi. Bisogna essere pronti: fare impresa, pensare come brand, lavorare sulla propria identità, sulla qualità del prodotto e sui propri caratteri distintivi. È programmazione: siamo artefici del nostro futuro, la fortuna può dare una mano ma non ti busserà mai alla porta.”

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